1966, quando le aziende del settore carbonifero già sapevano che la liberazione di CO2 nell’atmosfera avrebbe comportato notevoli cambiamenti nel clima terrestre.
«Emissioni di CO2 sotto attento studio
Composto compreso tra i gas emessi dalle ciminiere delle centrali a carbone, il diossido di carbonio non è considerato, in generale, tra le sostanze inquinanti in quanto non è mai stato dimostrato che possa avere effetti dannosi sulle piante o sugli animali. Comunque sia, per illustrare il problema dell’inquinamento atmosferico nella sua più ampia dimensione, è necessario segnalare che numerosi studi sono in corso per determinare se maggiori restrizioni sulle emissioni del diossido di carbonio nell’atmosfera dovrebbero essere messe in atto. Ci sono evidenze che la quantità di diossido di carbonio nell’atmosfera della Terra sta rapidamente crescendo come conseguenza della combustione di fonti energetiche fossili. Se il futuro tasso di incremento continuerà ai livelli attuali è stato previsto che, poiché la CO2 nell’atmosfera riduce la radiazione, la temperatura dell’atmosfera terrestre si accrescerà e vasti cambiamenti si verificheranno nel clima della Terra. Tali cambiamenti nella temperatura causeranno lo scioglimento delle calotte polari e, come conseguenza, la maggior parte delle città costiere, incluse New York e Londra, saranno interessate da inondazioni».
No, no, non si tratta di un paragrafo tratto dal manuale dei giovani aspiranti ambientalisti e nemmeno del testo frettolosamente inserito in un vetusto libro di scienze ad uso delle scuole.
E non è neppure recente, risalendo al secolo sorso, precisamente all’anno 1966, oltre mezzo secolo fa.
Potremmo definirlo una ben fatta versione di ciò che oggi conosciamo come cambiamento climatico.
Rivista del settore
L’articolo è ospitato, nel suo numero di agosto 1966, dal Mining Congress Journal, ed è stato scovato, quasi per caso, nell’agosto dello scorso anno, da Chris Cherry, professore presso il Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università del Tennessee, Knoxville: in una un pila di vecchie riviste che stavano per essere eliminate, fu attratto dalla raccolta di quelle dedicate al settore carbonifero e le recuperò per farne un regalo al suocero che aveva lavorato per anni nel settore. Sfogliandole, si imbatté nell’articolo di Garvey e nella successiva discussione a firma di James R. Jones, un ingegnere specializzato nella combustione della Peabody Coal Co.
James R. Garvey, l’autore dell’articolo: non possiamo sapere se fosse anche un ambientalista ante litteram; di certo era il presidente della Bituminous Coal Research, Inc., un’azienda di ricerche sul carbone non più esistente, e vice presidente e ricercatore della National Coal Association, un’affiliata della BCR.
Preoccupazione?
Eppure, il tono con il quale il tema delle conseguenze che la liberazione nell’atmosfera di diossido di carbonio, a seguito dell’utilizzo di combustibili fossili, avrebbe avuto nel tempo era affrontato nel 1966 da Garvey e Jones, appare alquanto differente da quello con cui molte aziende legate all’estrazione e alla lavorazione dei combustibili fossili lo trattano da almeno un paio di decenni: piuttosto che negarlo, l’articolo che stiamo analizzando offre un riconoscimento diretto e chiaro della problematica ambientale.
Nella parte introduttiva Garvey, segnalando che negli anni Sessanta del secolo sorso la massima attenzione era stata posta al problema dell’inquinamento delle acque, prospettava che la crescente domanda, da parte degli uffici dedicati al controllo della salute, per un’aria più pulita avrebbe col tempo introdotto politiche di restrizione sull’inquinamento dell’aria tali da obbligare a ripensare il futuro dell’industria carbonifera. E fra tutti i settori energetici legati all’utilizzo di carbone, quello che più avrebbe subito le conseguenze di sempre più esigenti azioni in tema di inquinamento dell’aria sarebbe stato il settore legato alla produzione di energia elettrica: mercato che a metà di quel decennio assorbiva il 50% delle produzione energetica fornita dal carbone, ma che, secondo gli economisti di allora, avrebbe avuto una crescita fenomenale nei decenni a venire.
Impronta climatica del carbone
È ormai chiaro il motivo della preoccupazione di Garvey: la combustione del carbone ha di gran lunga la più grande impronta climatica di qualsiasi altro combustibile fossile, producendo più diossido di carbonio per unità rispetto a petrolio e metano. Solo negli Stati Uniti il carbone ha prodotto il 65% delle emissioni responsabili del riscaldamento globale del settore energetico.
E Jones avvertiva un’urgenza nella questione: seppure la tecnologia, con sempre maggiore efficacia, riusciva a dare risposte alle molte domande legate all’inquinamento dell’aria, molte di queste dovevano ancora essere affrontate e, si chiedeva, fino a quando i municipi, le autorità sanitarie, i comitati di cittadini si sarebbero convinti e sarebbero stati disposti ad aspettare?
Conseguenze non solo legali
Il breve paragrafo sopra riportato, inserito in un più ampio articolo, peraltro dedicato in massima parte agli aspetti inquinanti degli ossidi di zolfo, potrebbe rientrare nell’ambito delle filologiche, e per taluni maniacali, ricerche sulla storia della climatologia, se non fosse che presenta implicazioni politiche rilevanti.
Subito colte da Cherry: la sua fortuita scoperta solleva domande su ciò che l’industria carbonifera sapeva all’epoca e può dimostrarsi la prima prova che i suoi responsabili erano consapevoli dell’imminente crisi climatica; aprendo le compagnie minerarie al tipo di controversie legali che l’industria petrolifera statunitense sta affrontando da anni.
Non a caso l’HUFFPOST si è occupato della materia il 16 dicembre dello scorso anno e anche su “il venerdì” di Repubblica del 27 dicembre è apparso un articolo dal titolo “Chi ha rovinato il clima lo sapeva. Da mezzo secolo”.
Campagne contro
Negli Stati Uniti numerosi procuratori legali hanno lanciato la campagna “Exxon Knew” alla quale si sono associate le comunità di tutto il paese; almeno 14 sfide legali sono state presentate contro Exxon e altre società legate alla produzione dei combustibili fossili. In parte, le accuse si concentrano sulle campagne pubblicitarie ingannevoli, sui danni finanziari agli investitori causati da non chiare comunicazioni sui rischi che i cambiamenti climatici innescati dai combustibili fossili avrebbero prodotto, e sui costi per gli interventi di adattamento alle nuove condizioni climatiche. Solo pochi mesi fa, due dei più grandi comuni delle Hawaii hanno fatto causa alla Exxon e ad altre compagnie petrolifere per i costi sostenuti per proteggere le coste dall’innalzamento del livello dell’oceano e dalle tempeste sempre più violente.
Dimostrare che i responsabili sapessero che le loro attività avrebbero causato cambiamenti climatici, oppure che deliberatamente non hanno comunicato in modo corretto quanto sapevano non sarà facile; la raccolta di prove è il fondamento della strategia legale di coloro che cercano di veder riconosciuti i danni per le emissioni di diossido di carbonio.
Previsioni fondate
Documenti da poco recuperati mostrano che i ricercatori della Exxon iniziarono a consigliare la graduale eliminazione del carbone quale combustibile fossile già nel 1979, prevedendo la necessità di mantenere la concentrazione di CO2 nell’atmosfera al di sotto di 440 parti per milione.
Nel dicembre 2019 abbiamo raggiunto circa 412 ppm.
Sempre più vicini al limite fissato dai ricercatori della Exxon.