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Ricordando Laura Conti

Ricordando Laura Conti

Qualche giorno fa ricorreva il centenario della nascita di Laura Conti, avvenuta il 31 Marzo del 1921.
La si può annoverare tra le persone che hanno contributo a segnalare, già negli anni Settanta del secolo scorso, le conseguenze degli impatti dei sistemi produttivi sulla salute delle persone e del pianeta. Era una posizione minoritaria, ritenuta un ostacolo alla crescita economica, richiedeva coerenza e coraggio.  E Laura Conti se ne è sempre assunta il rischio.
Nel 1980 ha contribuito alla nascita di Legambiente ed ha avuto un ruolo importante all’interno del suo comitato scientifico.

Abbiamo pensato di ricordarla rileggendo un suo libro, “Questo pianeta”, pubblicato nel 1983, e proponendo, in una nostra maldestra versione, alcune sue brevi parti, sperando di incuriosirvi abbastanza da invogliarvi a recuperare il testo.

Questo pianeta” è una sorta di lunga lettera che l’autrice rivolgeva a due persone reali, indicate il Filosofo e l’Architetto, e a tutte le persone che si ritrovavano nella loro visione dei rapporti tra l’uomo e la natura. Entrambi, il Filosofo e l’Architetto, partendo da due visioni opposte giungevano ad una conclusione simile e, per Laura Conti, pericolosa.  Entrambi si appoggiavano al concetto di illimitatezza: illimitate le capacità dell’uomo per il Filosofo, illimitate le capacità della  natura per l’Architetto. Se l’uomo ha una illimitata capacità di modificare la natura e una altrettanto illimitata capacità di impedire che il cambiamento renda impossibile la permanenza della vita sul nostro pianeta nelle sue diverse forme, altrettanto illimitata è la capacità che la natura ha di farsi trasformare senza per questo perdere la propria capacità di permanere così come l’abbiamo incontrata. Due concezioni che hanno in comune la convinzione che l’uomo, in fondo, non sbaglierà: potrebbe anche farlo ma, non lo farà perché è troppo bravo e, se anche lo facesse, interverrebbe la natura riassorbendo da sé i suoi errori. Per entrambi tutti i bisogni dell’uomo, quelli di adesso e quelli che sarebbero nati nel futuro, saranno sempre soddisfatti e ciò avverrà su un pianeta che continuerà ad essere un luogo pieno di forme di vita. Una visione tanto ottimistica quanto quella che Pangloss trasmise a Candido. E drammaticamente distante dai timori che, come l’autrice, molte persone in quegli anni vedevano nascere dalla convinzione che l’uomo, tutt’altro che essere il dominatore del mondo vivente, non ne è che un aspetto, ma con un potere di interferenza dalle conseguenze imprevedibili. Una distanza che l’autrice si augurava di poter colmare.

Dopo questa premessa il libro si muove dall’origine della vita dal non vivente ai giorni nostri.

Alimentare – Non alimentare
L’utilizzo del carbone, iniziato dal Mille, seppure sporadico portò nei secoli all’esaurimento dei giacimenti superficiali, tanto che, già agli inizi del Seicento, la sua estrazione si scontrò con una seria difficoltà: la necessità di svuotare dall’acqua le gallerie in profondità. Lo svuotamento era attuato con norie, in pratica secchi, calati vuoti e sollevati pieni o a forza di braccia oppure tramite una ruota tenuta in movimento da un salto d’acqua. Dove questo non esisteva bisognava servirsi dei cavalli. Un impiego molto dispendioso in quanto il cavallo dispone di una forza muscolare maggiore di quella dei buoi ma maggiori sono le sue esigenze alimentari: non può essere nutrito con cellulosa, cioè con i residui dell’alimentazione umana, ma necessita di avena di trifoglio, cioè di cereali e di leguminose; dunque, il terreno per la sua alimentazione è terreno sottratto all’alimentazione dell’uomo. Impiegare il cavallo per estrarre il carbone si potrebbe definire come un impiego di energia alimentare per ottenere energia non alimentare. Un modello allora non economico perché andava contro un principio non ancora esplicitato ma applicato con coerenza: impiegare energia non alimentare per ottenere energia alimentare, e non fare il contrario. Principio che vale anche oggi? Sicuramente no, quantomeno non sempre. Basterebbe citare il biodiesel. 

Semplicità, ossia instabilità
L’ecosistema del lichene artico è un caso esemplare di come, in situazioni climatiche estreme, l’organizzazione delle forme viventi si mantenga semplice e non evolva verso forme mature e articolate.
I protagonisti di questa vicenda sono solo tre: il lichene artico, appunto, con il ruolo di gestore unico della fotosintesi, la lepre zampa-di-neve, erbivora, e la lince zampa-di-neve, carnivora.
Singolarità: il lichene artico segue un ciclo undecennale, ossia ogni undici anni la sua attività fotosintetica si riduce e diminuisce la biomassa che produce. Di conseguenza, la lepre zampa-di-neve, trovandosi con una diminuita disponibilità di cibo perde parte della proprio prolificità e, a catena, anche la popolazione di linci zampa-di-neve, con meno lepri da predare, si riduce. Ma, senza sparire, gradualmente, con la ripresa fotosintetica del lichene, le lepri aumentano e così anche le linci, fino ad una situazione di equilibrio che di nuovo sarà rimessa in discussione all’undicesimo anno.
Questo in condizioni di non eccezionalità.
Tuttavia, qualora il lichene fosse malauguratamente colpito da una malattia letale, quali sarebbero le conseguenze? Rispondere è tanto semplice quanto lo è questo sistema: non ci sarebbe alcuno scampo per gli altri due protagonisti di questa stretta triangolazione: morirebbero le lepri e poi le linci.
La malattia, però, potrebbe colpire le lepri, e in questo caso le linci morirebbero subito dopo, ma senza le lepri le parti morte del lichene si accumulerebbero da un anno all’altro ed in breve, coprendo le parti giovani e vitali, provocherebbero un rallentamento della attività di fotosintesi, che a sua volta …
Potrebbero anche ammalarsi le linci, e allora le lepri, senza un predatore si moltiplicherebbero, e l’eccesso di pascolo potrebbe portare alla radicale riduzione del lichene, se non alla sua sparizione, e le lepri, affette da una condizione di denutrizione si ammalerebbero …
Una situazione semplice e pericolosa, dunque, che si verifica a causa delle condizioni estreme di alcune grandezze fisiche, quali temperatura e illuminazione, e che si traduce in una situazione nella quale ad una preda corrisponde un solo predatore, e ad un predatore corrisponde una sola preda. Nonostante, come in questo caso, sia la lepre che la lince non abbiano un comportamento altamente specializzato, potendo la lepre nutrirsi anche di carote e la lince anche di ratti, se fosse loro consentito.
Ogniqualvolta le condizioni abiotiche sono favorevoli gli ecosistemi evolvono verso la complessità. E se non sono in grado di farlo semplicemente spariscono, lasciando il posto al deserto.
Oppure ad un’astronave, dotata di strumentazioni sempre più sofisticate e complesse e di sistemi viventi sempre più semplici e semplificati. Se siamo giunti all’attuale complessità dei viventi in milioni di anni, e riusciamo ad eliminare una specie ogni quindici minuti, in quanto tempo ridurremo pericolosamente il patrimonio di informazione differenziata ricevuto ad un livello tale da renderlo altamente instabile?

Malthus e Darwin
Ipotizziamo che in un preciso luogo nascano ogni anno 1.000 mosche dell’ulivo, troppe per la disponibilità di cibo (le larve di questo insetto si nutrono della drupa dell’olivo) di quella zona, e che ogni anno ne sopravvivano 100. Ipotesi malthusiana.
Decidiamo di intervenire ogni anno con un pesticida che abbia una efficacia costante del 90%: delle 100 mosche sopravvissute alla fame ne resteranno solo 10 ad infestare il territorio. E da loro l’anno successivo ripartirà il ciclo: 1.000 nuove mosche, solo 100 sopravvissute alla fame, ma solo 10 di esse, per ragioni varie, eviteranno di farsi eliminare dalle irrorazioni del pesticida.
Qualora nascesse per pura casualità una mosca mutante resistente al pesticida (ipotesi darwiniana), la contabilità cambierebbe. Perché quella mosca mutante darà origine a 100 mosche, delle quali solo 10 supereranno la competizione per il cibo, ma passeranno tutte indenni al trattamento pesticida e, pertanto, dovranno competere con solo altre nove mosche ma in un contesto che continua a fornire alimento per 100 mosche.
Di anno in anno la percentuale di mosche resistenti al pesticida crescerà all’interno della popolazione, e arriverà il momento nel quale quasi tutte le mosche saranno indifferenti al trattamento.
Dunque, come ogni anno nasceranno 1000 mosche, 100 se la caveranno nella lotta per il cibo, l’uomo spargerà il pesticida, ma la popolazione sarà ormai stabile esattamente come accadeva prima che si irrorasse il pesticida.
Ma, nel frattempo, avremo speso denaro per acquistare il principio chimico e le apparecchiature connesse, avremo consumato energia per produrlo, trasportarlo e distribuirlo, avremo immesso nell’ambiente sostanze tossiche e avremmo, nostro malgrado, contribuito a selezionare mosche resistenti al pesticida. Obbligandoci a dedicarci alla ricerca di un nuovo pesticida, che non potrà che essere più costoso, ecc.
Proprio negli anni in cui Laura Conti pubblicò “Questo pianeta”, gli studi in tutto il mondo stavano mostrando che la sostituzione delle originarie zanzare anofeli (le portatrici della malaria) con ceppi resistenti al DDT richiedeva dai trenta ai quarant’anni.

Ricordando Laura Conti ultima modifica: 2021-04-10T17:54:20+00:00 da Giorgio Della Valle

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