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1979-1989: quando un accordo sul clima venne, quasi, raggiunto (II)

1979-1989: quando un accordo sul clima venne, quasi, raggiunto. (II)
[Nota]

Un controverso rapporto
Nel 1979 Carter commissionò alla Accademia Nazionale delle Scienze una disamina di tutto quanto prodotto fino ad allora sul problema del diossido di carbonio.
Un impegno da un milione di dollari che coinvolse decine di scienziati di svariati settori del sapere.
Il rapporto, Changing Climate, fu pubblicizzato nell’ottobre del 1983 e in quel non breve lasso di tempo l’amministrazione Reagan trovò il perfetto alibi per evitare di dedicarsi ad una politica del clima: finché l’Accademia non avesse deliberato come poter agire?
I dati riportati, nella loro sobria contabilità, sono interessanti:

  • dato per assodato che la CO2 è una dei principali gas atmosferici ad influenzare il clima;
  • che altri gas a effetto alterante del clima sono immessi a ritmi crescenti nell’atmosfera;
  • confermato il graduale aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera;
  • attribuita alla combustione di carbone, petrolio e gas la causa primaria della crescita di CO2 e degli altri gas;
  • pur nell’incertezza delle previsioni, legata all’impossibilità di prevedere i futuri sviluppi economici e tecnologici e la derivata richiesta di fonti energetiche fossili, è ritenuto molto probabile un livello di 600 ppm di CO2 nell’atmosfera nel terzo trimestre di questo secolo;
  • che ci sarà un aumento della temperatura media globale;
  • che al livello raddoppiato di CO2 corrisponderà un aumento medio delle temperature globali compreso tra 1,5°C e 4,5°C.

Ancora: la comprensione  e le prove di ciò che sta accadendo al clima potrebbero arrivare troppo tardi e non possiamo permetterci di aspettare le prossime soluzioni migliori. Ovverossia: agire e da subito, è la nostra sintesi.
Tuttavia, in altra parte del rapporto si sostiene che le prove raccolte non sono tali da sostenere una proposta che comporti un radicale cambiamento nell’allora combinazione di combustibili fossili o addirittura il loro abbandono a favore di altre fonti energetiche. Auspicabili in qualche vago momento futuro, tali inversioni di strategia non erano ritenute attuabili. Meglio approfondire la conoscenza dei fenomeni in mancanza di valide alternative.
In estrema sintesi: “cautela, non panico”.
E, nelle conferenze stampa che seguirono, la prudenza venne addirittura accentuata, al punto da invertire alcune proposizioni contenute nel rapporto: meglio aspettare perché gli interventi precipitosi rischiavano di essere, oltreché costosissimi, meno efficaci delle future azioni intraprese sulla base di più affidabili conoscenze. Insomma, le future generazioni avrebbero avuto a che fare con un clima cambiato in peggio, ma sarebbero state più preparate per deviarne le conseguenze.
Possibile leggere in filigrana l’inesausto ottimismo americano? L’incrollabile fiducia nelle qualità del mercato?
Il “Wall Street Journal” colse l’occasione: quale preoccupazione per il tanto reclamizzato riscaldamento globale, ovvio che possiamo farcela.
Però anche il “New York Times” non fu da meno: in un articolo dal titolo Dissensi sull’urgenza del riscaldamento globale, concluse che non esistevano azioni consigliate oltre la continuazione delle ricerche.
Per non pochi, tra cui Rafe Pomerance, la vicenda fu sconfortante: se quel lavoro non aveva apportato nulla alla conoscenza del cambiamento climatico, aveva innescato un cambio nelle politiche climatiche; la politica aveva bisogno di certezze dalla scienza per poter immaginare un intervento estremo, ma le prevedibili conseguenze dell’inazione erano troppo devastanti per tergiversare.
L’API smantellò i gruppi di ricerca; lo stesso fece Exxon con un ritorno alla proprie basi : fornitore di idrocarburi convenzionali. E così via.

S-compare l’ozono

10 Giugno 1986, sottocommissione del Senato USA sull’inquinamento ambientale, Robert Watson, ricercatore della NASA, proiettò un’animazione in timelapse: in tre minuti scorrevano le immagini dell’Antartide dall’alto nei singoli giorni dei mesi di ottobre degli ultimi sette anni.
Il “buco dell’ozono”, colorato di rosa, subiva un’espansione intermittente con il passare degli anni e dal rosa virava al malva fino al viola scuro in parallelo con il continuo calo della densità dell’ozono.
La crisi dell’ozono aveva trovato il suo simbolo, un problema di dati e grafici astratti era stato tradotto nei termini dell’immaginazione.
La vicenda del buco dell’ozono ebbe un inizio ed un epilogo in soli due anni, tra il 1985 ed il 1987.
1985:  “Nature” pubblica il lavoro di alcuni scienziati britannici, i valori primaverili di ozono in Antartide sono diminuiti in misura rilevante.
Tempo qualche mese e i giornali riportano la notizia con toni allarmistici: calo produzione agricola, aumento tumori delle pelle, morte delle larve di pesce, atrofia sistemi immunitari, cecità.
Novembre 1985: F. S. Rowland, uno dei primi ad occuparsi del problema, durante una conferenza, usò l’ espressione “buco dell’ozono”, tutt’altro che rigorosa, ma efficace.
I lavori di Rowland e di Molina avevano individuato i responsabili: i clorofluorocarburi (CFC), usati nei circuiti di frigoriferi, bombolette spray, ecc. Erano anche potenti gas serra, ma l’interesse era su altro.
1985: il Programma della Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), definisce le linee guida per un trattato globale per la protezione dello strato di ozono (Convenzione di Vienna).
Reagan propone una riduzione delle emissioni di CFC del 95%, invertendo in modo sorprendente una politica fino ad allora attenta alle ragioni delle aziende statunitensi produttrici di CFC.
1987: firmato il Protocollo di Montreal che impegna le nazioni ad eliminare gradualmente sia la produzione che il consumo delle sostanze che riducono lo strato di ozono. Entrerà in vigore due anni dopo.
Era stato definito, in tempi rapidissimi, un nuovo modello internazionale e alle Nazioni Unite qualcuno incominciò a chiedersi se non fosse stato possibile raggiungere un risultato simile anche con il problema del diossido di carbonio.

Da traino
Curtis Moore, repubblicano nel comitato per l’ambiente, nell’autunno del 1985, incontrò Rafe Pomerance. La politica, argomentava, non parla d’altro che di ozono e lo fa per una semplice ragione: il buco dell’ozono ha una soluzione politica, un trattato internazionale già in fase di definizione, esattamente come la questione ambientale non ne ha. Perché non sfruttare questa favorevole congiuntura per riaprire il tema della CO2? Preparando un’udienza al Senato che affronti in successione i due temi?
Pochi mesi, e tutto fu pronto: il 10 giugno si sarebbe parlato di ozono e il giorno successivo James Hansen, Al Gore, G. Woodwell e C. Wunsch affrontarono il tema del cambiamento climatico.
L’evento, trascinato dal panico per il buco di ozono, ebbe un rilevanza mediatica strepitosa e i giornali si scatenarono con i titoli più catastrofici (Il mondo si scalderà più in fretta, Previsioni catastrofiche per il pianeta “serra”, ecc.).
La questione dell’ozono aveva aperto alla necessità di accordi internazionali e il repubblicano John Chafee, che presiedeva la sottocommissione del Senato sui cambiamenti climatici, sostenendo che quel problema era connesso a quello della CO2 e che entrambi necessitavano di una soluzione, propose di perseguire un accordo globale sul clima con l’Unione Sovietica.
Ma successe altro:

  • durante la firma del Protocollo di Montreal l’allora capo dell’Epa sotto l’amministrazione Reagan dichiarò ai giornalisti che il riscaldamento globale sarebbe stato affrontato con un analogo accordo;
  • nella primavera di quell’anno, il 1987, durante l’annuale incontro dell’industria petrolifera organizzato dall’API a Houston, M. C. MacCracken nel discorso, The Reality of the Greenhouse Effect, sollecitò la transizione alle energie rinnovabili;

  • in quello stesso anno si tennero otto giorni di udienze sul clima in tre commissioni di entrambe le Camere del Congresso;
  • dopo un’udienza organizzata dalla Commissione per l’energia, il 9 novembre, e l’ennesimo intervento di James Hansen, Timothy Wirth, un senatore democratico del Colorado, diede inizio ad una serie di leggi sul cambiamento climatico e, assieme a oltre quaranta senatori democratici e repubblicani, chiese a Reagan di raggiungere un accordo internazionale;
  • a maggio Reagan firmò una dichiarazione congiunta con Michail Gorbačë

In realtà, qualche segnale in controtendenza avrebbe meritato più attenzione: la Casa Bianca tentò, seppur in modo maldestro, di censurare l’intervento di Hansen e, nonostante gli sforzi di Wirth, nessun serio piano nazionale per limitare l’uso di combustibili fossili  era stato approntato.

1988-1989
Due anni nei quali le vicende presero un abbrivio inaspettato.
Innanzitutto, il 1988 fu un anno eccezionalmente caldo: un milione di acri di foresta persi per incendi nel parco di Yellowstone; in Nebraska si registrarono temperature superiori ai 38°C; l’Università di Harvard chiuse per la prima volta a causa del caldo; nel campo del Veterans Stadium di Philadelphia durante una partita pomeridiana si raggiunsero i 54°C; e così via.
23 Giugno 1988: udienza al Senato, ennesima testimonianza di Hansen, con i suoi 36°C alle 14.10 non poteva che essere la giornata migliore per parlare di Global Warming. Hansen rafforzò quanto detto nelle precedenti udienze affermando che l’effetto serra era stato rilevato e stava già cambiando il nostro clima. Le parole di Hansen in evidenza sulle testate nazionali: Il “New York Times” titolò in evidenza in prima pagina Global Warming Has Begun.

27 Giugno 1988: Conferenza mondiale sui cambiamenti atmosferici a Toronto, quarantasei nazioni, trecento scienziati. Quattro giorni dopo l’udienza di Hansen, c’era poco tempo: Rafe Pomerance incontrò Timothy Wirth, che avrebbe tenuto il discorso di apertura della conferenza, e altri alti funzionari; se il Protocollo di Montreal aveva introdotto una riduzione delle emissioni di CFC del 50% entro il 1998, bisognava stabilire un obiettivo anche per le emissioni di CO2.
Propose il 20% entro il 2000, suonava anche bene.
Ambizioso? Senza un obiettivo difficile come ottenere progressi?
Inesatto? Non era più possibile aspettare che la scienza stabilisse il numero esatto, ammesso che potesse farlo. E poi, non era il numero in sé, ma l’averne scelto uno ad essere decisivo.
Efficiente? Sicuramente, in quanto coerente con gli studi che davano per certo un miglioramento del 20% nelle prestazioni energetiche di tutti i sistemi.
Estendibile? Si prevedeva che i paesi in via di sviluppo avrebbero accresciuto l’utilizzo dei combustibili, ma la diffusione delle energie rinnovabili, già disponibili, avrebbe riequilibrato l’aumento.
E Wirth nel suo intervento fece la proposta. Accettata da tutti gli scienziati e dai politici con una leggera variazione: meno 20% di CO2, ma entro il 2005.
Jim Hansen tenne conferenze stampa un po’ ovunque.
Negli Stati Uniti la conoscenza collettiva del problema climatico raggiunse il 68%, mai più raggiunto.
Entro la fine dell’anno furono presentati al Congresso trentadue disegni di legge sul clima.
In quel contesto, le Nazioni Unite istituirono l’IPCC.
Nella campagna presidenziale di quell’anno Michael Dukakis propose incentivi per la produzione nazionale di carbone e il raggiungimento dell’autonomia; George H.W. Bush rispose subito dicendosi ambientalista e proponendo “l’effetto Casa Bianca contro l’effetto serra”. Chi avrebbe perso?
Seconda metà 1988
E i petrolieri?
Preoccupati per le promesse ambientaliste di Bush, si chiedevano che cosa fare. Ma iniziavano a ragionare come se i cambiamenti climatici fossero una realtà: BP aveva speso undici miliardi di dollari in strade e tubazioni nel permafrost in Alaska e si preoccupava di cosa sarebbe successo se il ghiaccio si fosse sciolto; qualche economista sosteneva che i costi per il controllo climatico, per l’efficienza degli impianti e per le rinnovabili, erano ancora sostenibili e che, anzi, avrebbero condotto a vantaggi economici,  mentre, all’opposto, se non si fosse fatto niente i costi sarebbe divenuti estremi; altri preconizzavano due possibili epiloghi, o un mondo tutto orientato alle rinnovabili, oppure un proliferare di risposte nazionali con conseguente disordine geopolitico e crescente dipendenza dai combustibili fossili.
Al termine di un seminario dedicato al tema, la sintesi dei responsabili dell’industria petrolifera fu: assicurarsi che le politiche governative venissero applicate  con estrema gradualità, partecipare in modo attivo al dibattito con l’obiettivo di esasperare le incertezze dei risultati scientifici, segnalare la dubbia efficacia di ogni intervento legislativo, soprattutto garantirsi che ogni iniziativa non potesse nemmeno minimamente intaccare i profitti.
14 aprile 1989: ventiquattro senatori, sia repubblicani che democratici, chiesero a Bush di tagliare le emissioni di CO2 senza attendere che l’IPCC esprimesse le sue raccomandazioni.
8 maggio 1989: udienza al Congresso di Jim Hansen dal titolo “Climate Surprises” (scopriremo in seguito che le sorprese saranno altre). Hansen aveva accettato di testimoniare per comunicare una novità emersa dalle sue ricerche: oltre alle ondate di caldo bisognava aspettarsi anche precipitazioni estreme. Ma la sua testimonianza era, curiosamente, piena di incoerenze fece notare Gore. Perché mai?
La risposta era contenuta nel titolo di un articolo sulla prima pagina del New York Times: Scientist Says Budget Office Altered His Testimony (Uno scienziato dice che l’Ufficio per il bilancio ha alterato la sua testimonianza).
La Casa Bianca aveva modificato la testimonianza di Hansen con cancellature e aggiunte; Hansen non accettava che le sue scoperte scientifiche venissero definite inaffidabili, obiettò di essere stato forzato ad alterare la scienza.
Quanto accaduto divulgò la problematica ambientale come nessun intervento scientifico avrebbe mai potuto fare.
Maggio 1989: a Ginevra si svolse l’incontro dell’IPCC. Pochi giorni prima, sul “Washington Post”, un articolo raccontò di un scontro, non solo formale, in seno all’amministrazione Bush: William Reilly, neonominato amministratore dell’EPA, sosteneva che nella imminente riunione del gruppo di lavoro dell’IPCC la Casa Bianca avrebbe dovuto dimostrare la propria attenzione ai cambiamenti climatici proponendo un trattato globale sulla riduzione dell’utilizzo di fonti fossili, anche per non cedere alle potenze europee la leadership; John Sununu, capo del gabinetto di Bush, era convinto che un accordo vincolante avrebbe comportato difficoltà economiche inimmaginabili e si oppose. Dall’articolo, Sununu appariva come la sola persona ostile alle politiche ambientali; sospettò che fosse stato proprio Reilly a passare la notizia.
11 maggio 1989: Sununu inviò un telegramma ai negoziatori statunitensi a Ginevra, capovolgendo le direttive precedenti: lavorare per un consenso sul tema climatico, invece di limitarsi all’astensione.

Novembre 1989: il primo summit diplomatico sul risaldamento globale
A Noordwijk, località turistica dell’Olanda affacciata sul Mare del Nord, convennero i ministri dell’ambiente di oltre sessanta nazioni per valutare il lavoro fatto dall’IPCC e decidere di aderire ad un regolamento. Sembrava che tutti fossero interessati alla proposta olandese: bloccare le emissioni di gas serra al livello 1990 entro il 2000, valore più modesto di quello proposto a Toronto da Wirth ma anche di quello approvato.
Rafe Pomerance non figurava tra gli invitati ufficiali, ma assieme ad alcuni attivisti e ricercatori americani aveva messo in piedi un gruppo improvvisato e molto attivo. Avevano trovato le credenziali di accesso grazie alla partecipata sollecitudine del portavoce del Ministro dell’Ambiente olandese.

Organizzarono ogni giorno originali e provocatorie situazioni, ad esempio mettendosi davanti agli obiettivi della stampa con le bandiere ammainate a mezz’asta di Giappone, Unione Sovietica e Stati Uniti accusando i tre stati di boicottare ogni iniziativa per la salvezza della Terra.
Il gruppo riuscì a partecipare a tutti gli incontri, tranne che ad uno, quello che contava, il negoziato finale.
L’incontro iniziò la mattina e si protrasse oltre il previsto fino a quasi l’alba del giorno successivo. E si seppe cosa era successo dai delegati esausti ed esasperati: David Allan Bromley, il negoziatore americano, con il consenso di Gran Bretagna, Giappone e Unione Sovietica, era riuscito a convincere tutti a rinunciare a qualsiasi impegno rivolto alla riduzione delle emissioni di gas serra.
Certo, era la prima volta che gli Statu Uniti accettavano, in via ufficiale, la necessità di limitare le emissioni, ma da lì a un paio di mesi si sarebbe svolto ad Edimburgo l’incontro dell’IPCC ed era inevitabile temere che l’esito di Noordvijk potesse condizionarne i risultati.

Qualche dubbio
Per quanto abile potesse essere Bromley, possibile che un solo oppositore fosse riuscito a capovolgere l’intenzione dei partecipanti a sottoscrivere la proposta olandese? Quanto superficiale era l’appoggio a questa soluzione? O, più in generale, quando poco approfondita la volontà di operare una scelta innovativa in difesa del clima?
Bromley, in una memoria pubblicata nel 2005, scrisse dello sbalordimento che provò di fronte alla mancanza di conoscenze tra i ministri. E Sununu sostenne che se anche avesse sostenuto un trattato, non ne avremmo avuto uno. Perché in quell’occasione tutti volevano apparire sostenitori di una politica di salvaguardia del clima ma nessuno era disposto a assumersi impegni drastici che avrebbero, forse, penalizzato le proprie economie.
In fondo, se ad ogni stato non sarebbe stata negata la possibilità di impegnarsi, per quale ragione imporre un trattato vincolante?
Una sporca verità, comunque.

Al summit di Noodwijk  partecipò il ministro dell’Ambiente, ma anche della Scienza, ma anche del … di Kiribati, uno stato composto da trentatré atolli nel mezzo dell’Oceano Pacifico. Benché fosse alto un metro e mezzo, un solo luogo di tutto lo stato era più alto di lui. Un innalzamento del livello del mare di soli sessanta centimetri per gli abitanti di Kiribati avrebbe significato vivere con l’acqua fino alla coscia. Possiamo solo immaginare lo sconforto e il senso di solitudine che provò dopo quella lunga giornata conclusasi con una non decisione.

https://www.youtube.com/watch?v=qF9WdV8pUPk
È una curiosità, un film didattico sulla meteorologia ed il clima di Frank Capra, proiettato per decenni nelle scuole americane. Nella parte finale, lo spezzone allegato, il dottor Research avverte che c’è la possibilità che l’uomo stia “inconsapevolmente cambiando il clima del mondo”; appaiono ghiacciai che collassano e una curiosa animazione con un battello di turisti che osservano dall’alto i palazzi di Miami sommersi. Era il 1958.

[Nota: Il lavoro, che si conclude con questo articolo, è stato suggerito e originato dalle lettura del libro “Perdere la Terra” di Nathaniel Rich, Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2019. Ne consigliamo la lettura riportando il commento di Jonathan Safran Foer: “Un capitolo essenziale nella letteratura sul cambiamento climatici. La storia di come siamo arrivati qui“].

Di seguito il link alla prima parte del lavoro.

1979-1989: quando un accordo sul clima venne, quasi, raggiunto.

1979-1989: quando un accordo sul clima venne, quasi, raggiunto (II) ultima modifica: 2020-04-04T16:42:47+00:00 da Giorgio Della Valle

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