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Allevamenti intensivi, emergenza climatica ed epidemie: il caso Olanda

Allevamenti intensivi, emergenza climatica ed epidemie: il caso Olanda

 

Immaginando
Immaginiamo di accrescere il numero degli abitanti di Faenza a poco più di 88 mila e di distribuire nei suoi 215,76 km2 di territorio, concentrandoli in enormi allevamenti industriali, circa 21.000 bovini, oltre 64.000 maiali, 4.150 ovini e 2.770 caprini, addirittura 555.216 (oltre mezzo milione) volatili, senza dimenticare 730 cavalli.
Pensate sia impossibile?
Beh, se Faenza fosse un comune dell’Olanda, con alta probabilità si troverebbe a convivere con una così alta concentrazione di animali.

E se fosse una città del Brabante settentrionale i numeri sarebbero ancora più sorprendenti: ogni abitante di Faenza condividerebbe lo spazio con circa 19 polli, 4 maiali e circa mezza vacca.

Vacche grasse in Olanda
Nei Paesi Bassi 17 milioni di persone convivono con oltre 100 milioni di polli, 12 milioni di maiali, 4 milioni di mucche e così via. La più alta concentrazione di animali al mondo.
Nessuna meraviglia se da tempo gli olandesi discutano sulle condizioni a cui sono sottoposti gli animali nelle stalle ma anche sui rischi per la salute umana di una così alta concentrazione di allevamenti. Un disagio che si riflette nelle scelte di voto, tanto che nel 2006 i Paesi Bassi hanno portato in parlamento, primi al mondo, il Partito per gli Animali.

L’industria agricola è diventata, negli ultimi decenni, una delle principali fonti di ricchezza del paese: nel 2013 ha rappresentato il 16% delle esportazioni, 79 miliardi di euro di animali macellati e prodotti derivati venduti all’estero. Pur essendo una piccola nazione,  l’Olanda è al secondo posto tra gli esportatori mondiali di prodotti animali dopo gli Stati Uniti, primo esportatore mondiale di uova e primo fornitore di carne di pollame all’Unione Europea.
Uno straordinario sistema logistico in perenne azione: in tre giorni nei magazzini di incubazione nascono fino a 7 milioni e mezzo di pulcini da smaltire rapidamente. Costosissimo incepparlo. Ma talvolta, per la verità sempre più spesso, succede.

Nove epidemie
Come nel 2014: a seguito della scoperta di un ceppo altamente contagioso di influenza aviaria  in una fattoria, fu attuato il blocco per tre giorni dei trasporti di pollame, 100 milioni di euro di danni.

Ma si dimostrò inutile, altri focolai furono scoperti nelle fattorie vicine alla prima e l’oneroso blocco fu esteso ad un’intera settimana. Alla fine si contarono oltre 200.000 polli abbattuti. Si trattava, peraltro, della nona epidemia di influenza aviaria nel paese in meno di 20 anni.
Non solo polli e vacche, dunque, anche storie contagianti.

Nella paglia
Sulle altre, quella che ha per protagonista un batterio e che facciamo iniziare in Italia.
Nel 1950 un istituto d’arte in Inghilterra ordinò dall’Italia alcune copie in gesso di statue classiche; data la loro delicatezza furono avvolte nella paglia; tutti gli studenti di una classe dell’istituto inglese contribuirono a spacchettarle; quasi tutti si ammalarono di febbre Q: febbre alta, forte emicrania, dolori muscolari, difficoltà a respirare, tosse persistente, in definitiva i sintomi di una normale influenza.
Nessuno seppe spiegare in che modo si fosse contaminata quella paglia. Tuttavia, per quanto bizzarra, questa storia segnò l’inizio di una sempre maggiore consapevolezza della diffusione di questa malattia nel mondo, solo in Nuova Zelanda ne è esclusa la diffusione.

Guerre varie
Curiosa singolarità: durante la seconda Guerra Mondiale la cosiddetta Balkangrippe, o influenza dei Balcani, era diffusa oltre che tra le truppe tedesche in Grecia anche tra quelle neozelandesi in Italia e si trattava, ma lo si scoprì in seguito, della febbre Q. Una malattia la cui elevata contagiosità è illustrata dal caso di una nave americana carica di soldati che, dopo solo una o due notti alla fonda vicino a Bari, si ritrovò con metà dei soldati ammalati.
Negli anni Cinquanta del secolo scorso, sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica si interessarono a questa malattia come potenziale arma batteriologica perché, nonostante sia poco dannosa sull’uomo, la facilità di conservazione dell’agente patogeno, la rapidità con la quale si trasmette per via aerea, infettando un numero elevato di persone adulte e rendendole inidonee al lavoro, anche se solo per pochi giorni, possono comportare conseguenze economiche rilevanti. Si è stimato che spargendo, tramite aereo, 50 kg dell’agente patogeno su una popolazione di 500.000 persone, si avrebbero 150.000 casi clinici e 150 morti.
Dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica alcuni esperti russi in guerre batteriologiche potrebbero aver offerto le loro competenze a gruppi terroristici. L’agente patogeno della febbre Q è facile da reperire, perché presente in numerose fonti naturali, facile da conservare e da maneggiare, e ad esso si dedicarono nel 1995 i membri della setta Aum Shinrikyō nella loro fanatica preparazione dell’attentato alla metropolitana di Tokyo, prima di rivolgersi al gas sarin. Fortunatamente non è proprio semplice ricorrere a questo patogeno perché, trattandosi di un parassita che si riproduce all’interno delle cellule, la sua produzione richiede tecniche sofisticate.

Quale febbre?
“Febbre Q”, una sigla curiosa ma che si dimostrò resistente nel tempo. Nei primi anni, semplicemente perché fu identificata in un mattatoio di Brisbane, nel 1933, i medici la denominarono “febbre dei mattatoi”, termine però non gradito dalle autorità veterinarie locali. In seguito fu riportata in alcune relazioni ufficiali la più complicata denominazione “rickettsiosi febbrile del Queensland”, suscitando questa volta la reazione delle autorità dello stato. Fu così che un microbiologo locale, esperto della malattia, dopo aver scoperto che la sigla “malattia X” era già utilizzata per un’altra patologia, propose “febbre Q”, dove “Q” si riferisce a query, cioè domanda, e non a Queensland come per molto tempo si credette. E quando si constatò che la malattia, tutt’altro che endemica del Queensland, era sparsa ovunque nel mondo, la sigla “febbre Q” divenne ufficiale.

Un avanzare a balzi
Rickettsia burnetii e poi Coxiella burnetii, il secondo quale correzione del primo, i due nomi attribuiti all’agente della febbre Q. Un cambio di denominazione che ci aiuterà a capire in che modo nascono i nomi scientifici, forse togliendoli dalla loro dimensione arcana, ma in particolare illustrerà in modo esemplare il procedere degli scienziati.
Come detto in precedenza, nel 1933 alcuni lavoratori di un mattatoio di Brisbane, specializzato nella macellazione di bovini ed ovini, furono colpiti da una sconosciuta malattia febbrile che presentava i sintomi dell’influenza o anche del tifo.
Se ne occupò inizialmente Edward H. Derrick, nominato da poco direttore del laboratorio di microbiologia presso il ministero della sanità del Queensland. Prelevato il sangue dai malati, lo iniettò nelle cavie scatenando un’infezione che si trasmetteva da un individuo all’altro. Dimostrò la presenza di un patogeno, nuovo, che i test di allora non identificavano come una delle malattie note. Non era visibile al microscopio e non si riusciva a coltivarlo in vitro. Poteva essere un virus.

Nel 1936 Derrick spedì campioni di tessuto epatico di una cavia infettata dal misterioso agente patogeno a Frank Macfarlane Burnet, un virologo che in quegli anni si era occupato della febbre dei pappagalli e lavorava in un istituto a Melbourne. Anche Burnet eseguì i controlli standard senza alcun risultato. E anche Burnet ipotizzò che potesse trattarsi di un virus filtrabile, in grado di attraversare i filtri più sottili.

Finché, in modo repentino e inaspettato, Burnet in alcune cellule di topo infettato trovò piccole “inclusioni” a forma di bastoncello. Estese la ricerca a cellule prese dalla milza e trovò che i bastoncelli erano numerosi sia all’interno che all’esterno delle cellule. Non ebbe dubbi: l’agente patogeno della febbre Q era una nuova rickettsia, non troppo diversa da quella che causava la febbre dei pappagalli.
Prima tappa: per riconoscere il merito al collega, Derrick propose di chiamare il nuovo batterio Rickettsia burnetii.
In quegli stessi anni, nel Montana, Gordon Davis, un microbiologo del Rocky Mountain Laboratory di Hamilton, lavorando su due forme patologiche raccolse alcune zecche in una località denominata Nine Mile, le applicò ad alcune cavie ed una di loro contrasse una malattia che non riusciva a identificare. In seguito, al gruppo di ricerca si aggiunse Herald Cox, e dopo qualche tempo i due ricercatori conclusero che il nuovo agente patogeno era una rickettsia. Fu nominato provvisoriamente “agente Nine Mile”. Giunse ad Hamilton Rolla Dyer, responsabile del gruppo di ricerca, non convinto che si potesse trattare di una rickettsia, ma presto si ricredette.
Seconda tappa e ci spostiamo al 1948, incontrando nuove possibilità di ricerca e nuove sorprese: si scoprì che il patogeno della febbre Q non apparteneva al genere Rickettsia ma ad uno nuovo che ricevette il nome  Coxiella in onore di Herald Cox. Da cui Coxiella burnetii, il suo nome attuale. Svelata l’etimologia.
Dyer si ammalò di febbre Q, esattamente come Burnet e come altri ricercatori. Entrambi guarirono per potersi rendere conto dell’alta infettività della febbre Q.

Un batterio quasi “virale”
L’elemento più evidente di questo batterio non è, però, la sua elevata infettività, ma il fatto che nell’epoca degli antibiotici riesca a fare impunemente seri danni. Per l’anomalia della sua natura.

Come già scritto, C. burnetii è un batterio, un batterio molto piccolo, che si comporta come se fosse un virus: per riprodursi è obbligato ad entrare nelle cellule, in particolare quelle del sistema immunitario. È un “parassita intracellulare obbligato”, con un ciclo riproduttivo complicato che cerchiamo di raccontare in modo semplice rifacendoci al seguente schema.

  1. Il batterio raggiunge la cellula ospite e viene fagocitato;
  2. all’interno della cellula il fagocito contenente i batteri si fonde con il lisosoma e si crea un ambiente debolmente acido in grado, di solito, di neutralizzare l’ospite indesiderato, digerirlo e trasformarlo in molecole più semplici utilizzabili come materiali nutritizi; tuttavia, con C. burnetii il sistema non funziona, il pH acido non solo ne favorisce il metabolismo, ma sembra anche offrire una protezione nei confronti dell’attività battericida di numerosi antibiotici. È una notazione di non poco conto: i lisosomi contengono enzimi in grado di scindere tutte le principali molecole contenute in una cellula, e la loro funzione è proprio quella di procedere, dall’interno, all’autodistruzione delle cellule danneggiate. Semplice: la membrana del lisosoma si spezza riversando il contenuto letale nella cellula, si direbbe, come efficacemente scritto in un libro di biologia di qualche anno fa, l’equivalente funzionale della capsula di cianuro di cui è fornita, si immagina, ogni buona spia.
  3. il batterio si presenta in due varianti morfologiche: le LCV (large-cell variant), di dimensioni maggiori, con attività metabolica intensa necessaria alla replicazione del batterio; e le SCV (small-cell variant) di dimensioni minori e con una spiccata resistenza ambientale.

Una capacità di affrontare le insidie dell’ambiente davvero notevole: sopravvive a 4°C e a — 20 °C per almeno quattro mesi; resiste nel latte a 65 °C per trenta minuti e a 78 °C per 32 secondi; può sopravvivere per oltre 500 giorni nel materiale essiccato (pelli, lana, polveri), nelle feci delle zecche e 186 gg nel sangue disidratato; sopravvive nel burro 41 giorni e nei formaggi fino a 25 giorni; fino ad oltre 1 mese in urina o espettorato essiccati, oltre sei mesi nell’acqua salata, oltre 3 mesi nelle polveri.
E sono proprio le polveri, e il vento, a riportarci in Olanda. Non per stabilire il record di contagi in laboratorio ma per capire le ragioni di una improvvisa epidemia tra gli abitanti di cittadine rurali.
75 allevamenti ovi caprini risultarono positivi per infezione da C. burnetii, 41.000 capi furono abbattuti. Circa 4000 le persone contagiate, in massima parte nel Brabante settentrionale, tra il maggio del 2007 e la fine del 2009 e 74 morti, un tasso di letalità basso rispetto a quello delle peggiori epidemie virali, ma alto considerando che le infezioni batteriche sono curabili con antibiotici.

Casi di “polmonite atipica” nel Brabante
Nel periodo che da gennaio si inoltra fino ad aprile, nascono i capretti. All’inizio del 2007 in un allevamento di grandi dimensioni ad Herpen, un piccolo paese nel Brabante settentrionale, molte femmine abortirono nell’ultimo mese di gravidanza e altre diedero alla luce capretti più piccoli e gracili del normale che morivano in un numero elevato. Si seppe poi che lo stesso problema si era presentato in altre fattorie di capre della provincia. Una malattia, forse infettiva, forse sconosciuta, si era diffusa in quella fattoria.
Un medico del luogo notò che alcuni pazienti mostravano sintomi di tipo influenzale, li curò come se si trattasse di influenza, ma gli antibiotici non furono così efficaci come ci si sarebbe aspettati. Qualcosa non tornava. Ne parlò con un collega e dopo una quindicina di giorni i casi anomali erano diventati venti, la metà dei pazienti dovettero essere ricoverati.
La notizia di una polmonite atipica si diffuse nell’ambiente medico, scattò la procedura di emergenza, furono inviati campioni sanguigni dei malati ad un laboratorio nazionale e, dopo una fase di incertezza, si concluse che la malattia era causata da C. burnetii, l’agente delle febbre Q.
Sulla base di esami casuali si ipotizzò che il batterio fosse endemico e non desse problema alcuno agli animali allevati.

Domande
Ma allora perché tanti casi concentrati nel 2007 e non anche prima? L’aumento degli aborti tra le capre, iniziato già nel 2005, poteva essere collegato all’epidemia del 2007? Quale il ruolo giocato dal crescente numero di capre allevate nella zona? Si sapeva che C. burnetii si diffondeva per via aerea, dunque quale era il rischio per gli abitanti dei paesi vicini agli allevamenti di capre?

Ovunque nei ruminanti
L’infezione da C. burnetii è, come già scritto, endemica nei ruminanti domestici: bovini, capre ovini, animali selvatici e uccelli costituisco il serbatoio naturale (reservoir) dell’infezione. La malattia decorre negli animali in maniera asintomatica e le uniche manifestazioni sono i disturbi nell’ambito riproduttivo, in particolare gli aborti (segnatamente nelle capre).
Gli animali infetti eliminano il batterio, durante un parto normale o con esito abortivo, nella placenta e negli invogli fetali. Un grammo di placenta di capra infetta può ospitare fino ad un miliardo di batteri. Ma li si può trovare anche in tutto ciò che viene emesso durante un parto, nelle feci, nell’urina, nel latte. Associando questa modalità di diffusione alla sorprendente resistenza alle più estreme condizioni ambientale, nessuna meraviglia che questo batterio sia così efficiente nel passare non solo da un ospite all’altro, ma anche di nazione in nazione.
Come non sospettare che il contatto diretto con materiale infetto potesse essere una causa significativa di contagio? E che dunque ne fossero esposti, più degli altri, gli addetti negli allevamenti di capre?

Via aerea
Per rispondere a queste domande, nella zona di Herpen fu avviata una ricerca capillare e analizzato il sangue di oltre quattrocento persone, settantatré delle quali avevano contratto la malattia di recente. Bene, il contatto diretto con gli animali infetti non era un elemento di rischio significativo e così pure l’aver bevuto latte crudo di capra. Interessante che circa il 40% degli individui positivi si erano ritrovati nelle vicinanze di sostanze quali paglia, fieno e letame. I dati furono sufficienti per permettere di concludere  che la più probabile forma di contagio fosse la trasmissione per via aerea.

L’affollamento
Ma se partiamo dal presupposto che i parti avvengano nel chiuso delle stalle, sia in allevamenti piccoli che enormi, come può il batterio diffondersi all’esterno e contagiare persone che non hanno mai avuto a che fare con le capre?
Entra in gioco il numero di capre allevate in Olanda.
Dalle 7 mila capre del 1983 alle 533 mila del 2017: un incremento enorme, iniziato nel 1984 con l’introduzione, da parte della Comunità europea, delle quote latte e accentuato dalle epidemie di febbre suina del 1997 e del 1998.

Una prima evidenza: in un paese così affollato di uomini e animali è inevitabile che gli allevamenti non possano che essere impiantati in luoghi prossimi ai centri abitati. Ad esempio, il villaggio di Herpen più volte citato è circondato da fattorie e la grande azienda con quasi quattromila capi, sospettata di essere la fonte del contagio, si trovava a meno di un chilometro dal paese.

La “lettiera permanente”
Una seconda evidenza è data dalla modalità di allevamento adottata nelle grandi aziende.
Quasi tutte le capre in Olanda sono allevate in stalle, chiuse per tutta la loro vita in ambienti vasti assieme ad altre migliaia di capi. Stalle dalle pareti di mattoni rossi e dai tetti bassi circondate da campi di fieno e di mais.
Più precisamente, si definiscono “stalle a lettiera permanente”, la tipologia usuale in allevamenti di grandi dimensioni.

Sul pavimento, in cemento, si accumulano per settimane feci e urine a cui si aggiunge con regolarità paglia sia per rendere l’impasto più solido, sia per attenuare la inevitabile puzza.  Con la decomposizione delle sostanze organiche si creano le condizioni ideali per la riproduzione dei batteri, ovviamente incluso C. burnetii, che anzi in quell’ammasso poltiglioso si trova a proprio agio riproducendosi in maniera incalcolabile.  Le capre si muovo sopra quell’incubatoio e producono latte.
Quando, finalmente, lo strato di letame raggiunge livelli limite e le capre sono immerse in ciò che producono fino agli stinchi, anche una sola capra infetta ha avuto modo di contagiare tutte le altre.
Arriva allora il momento dello sgombero: le capre vengono portate fuori dalla stalla all’aria aperta (si chiederanno dove diavolo sono finite), e tutto quell’enorme quantità di letame viene asportata e distribuita sui campi e sui pascoli come fertilizzante.
Miliardi e miliardi di batteri, nella forma piccola e resistente, sono pronti per essere trasportati dal vento ovunque.

Cronaca ad Herpen
Raccolti questi elementi, possiamo arrischiarci a raccontare quanto è probabilmente avvenuto ad Herpen nel 2007.
Nell’azienda sospettata, un’azienda di grandi dimensioni, alle porte del paese, all’inizio dell’anno gli aborti e la mortalità dei capretti neonati furono fuori controllo. Il problema, seppure in forme attenuate, si era già presentato nei due anni precedenti. Le indagini, effettuate a posteriori, accertano che l’azienda era piena di C. burnetii. Batteri dappertutto, nei materiali depositati su varie superfici, nelle secrezioni vaginali, nell’acqua dagli abbeveratoi, in insetti morti dentro una lampada, in granelli di polvere, pezzi di paglia, frammenti di sterco. Il batterio era ovunque lo si cercasse.
Come in tutte la grandi aziende, con regolarità, la lettiera fu ripulita e l’enorme quantità di letame fu distribuita sui campi.
La primavera in quell’anno, e nei successivi anni, fu assai più calda e secca del normale. Nel mese di aprile non cadde una sola goccia di pioggia. Prima che arrivasse l’estate i campi ed i pascoli attorno ad Herpen erano rinsecchiti. Il vento alzava nuvole di polvere e spirava proprio nella direzione del paese.
A maggio si registrarono i primi malati.
Il paese di Herpen era stato avvolto da una nuvola invisibile di C. burnetii.
Due aziende ad Herpen
I primi sospetti, all’inizio del 2007, cioè all’inizio dell’epidemia di febbre Q in Olanda, si concentrarono su due allevamenti di capre nell’immediata periferia di Herpen, per poi estendersi ad oltre 70 altri allevamenti distribuiti nel Brabante settentrionale.
La prima era un grosso allevamento con quasi 4000 capi, la seconda una piccola fattoria famigliare con solo 10 capre.
Il gruppo del RIVM (Istituto Nazionale per la Pubblica Saluta e l’Ambiente), inviato alla ricerca del focolaio epidemico raccolse campioni in entrambe le aziende.
Bene, mentre nella fattoria grande si trovarono tracce di C. burnetii ovunque, la fattoria piccola sembra essere pulita.
Se questi due casi non possono avere il ben che minimo valore statistico, sollevano però una serie di domande. Gli allevamenti intensivi di grandi dimensioni sono favorevoli alla proliferazione del batterio? Esiste, ed è stato accertato, un nesso causale tra la presenza, a breve distanza dalle abitazioni, di grandi stalle di capre e la diffusione dell’epidemia? Può un’agricoltura di piccole dimensioni, attenta alla salute ed alle esigenze naturali del bestiame, rappresentare una modalità efficace per prevenire il diffondersi di epidemie, vecchie e nuove?

Una digressione australiana
Il rapporto tra densità di ospiti e diffusione del contagio è un tema importante, da anni fonte di dibattito. Un tema complesso e articolato.
Chiamiamo in causa un geniale protagonista della storia della scienza: Frank Macfarlane Burnet, che abbiamo già incontrato in un laboratorio di Melbourne.
Alla fine degli anni Trenta del secolo scorso iniziò a scrivere un saggio sulle malattie infettive che pubblicò nel 1940. Nel 1960 vinse il premio Nobel per gli studi sui meccanismi dell’immunità acquisita.

Più che alla cura e alla prevenzione, si dedicò allo studio delle malattie infettive in senso ecologico, come modello di relazione tra individui di specie differenti. “La vita dei parassiti è essenzialmente simile a quella dei predatori carnivori … sono piccole creature che mangiano grandi prede dall’interno …”, e hanno un problema essenziale da risolvere: assicurarsi che le generazioni successive passino da un ospite all’altro. Molto interessante, in questo contesto, una sua considerazione: “È chiaro, però, che a parte il metodo usato da un parassita per passare da un ospite all’altro, una maggiore densità di possibili ospiti facilita la sua diffusione dagli individui infetti a quelli sani”. Insomma, quando gli ospiti vivono in condizioni di sovraffollamento e di scarsa igiene, i patogeni non possono che prosperare.
Esemplare di questa considerazione una fase del lavoro che impegnò Burnet nello studio della cosiddetta febbre dei pappagalli.
Siamo negli anni Trenta del secolo scorso. In varie parti del mondo molte persone tengono in casa pappagalli come animali da compagnia. E da loro proviene una malattia con sintomi simili a quelli del tifo, la psittacosi. L’agente è un batterio simile a quello del tifo. Un caso di zoonosi batterica.
In Australia nessuna caso della malattia. Forse i pappagalli australiani, pur essendo numerosi, ne erano immuni?
Burnet scoprì che non era così: i pappagalli selvatici australiani erano infestati dal batterio e molti  dei malati, a cui era stata diagnosticata la febbre tifoide, erano in realtà stati colpiti dalla febbre dei pappagalli.
Interessante fu il caso di dodici pazienti che avevano avuto a che fare con una partita di cacatua ciuffo giallo.

Una partita di 49 uccelli, catturati e venduti da un manovale di Melbourne che in questo modo arrotondava lo stipendio. Li tenne per alcune settimane in un capanno piccolo e buio. Dopo alcune settimane 9 morirono all’improvviso, ma nel frattempo il tipo ne aveva venduti 7 ai vicini e aveva mandato il giovane figlio al mercato con venti. Il ragazzo, la moglie, la suocera, cinque vicini e tre acquirenti si ammalarono. Alcuni in forma grave, ma nessuno ne morì.
Burnet, biologo oltre che medico, risalì alle probabili cause della locale epidemia.
Il cacatua deposita nel proprio nido due o tre uova; Burnet ipotizzò che l’infezione avvenisse nel nido prima che i giovani pappagalli lo abbandonassero; in natura i portatori sani dovevano essere molti e ben pochi esemplari sviluppavano la malattia e morivano isolati, senza diffonderla; se invece gli uccelli fossero stati tenuti in spazi affollati e chiusi, il batterio si sarebbe riprodotto, sarebbe stato secreto in grandi quantità in uno spazio angusto raggiungendo densità elevate; diffondendosi nelle gabbie assieme a piume, polvere e sterco sarebbe stato respirato dagli uccelli e dalle persone, contagiandole.
Questo negli anni Quaranta del secolo scorso.

Sì e no
Abbiamo cercato riscontri nell’oggi, in particolare negli studi sollecitati dall’epidemia di febbre Q in Olanda, ritrovando, ma come avrebbe potuto essere essere altrimenti, un quadro complesso.

La grandezza
Un primo elemento riguarda la relazione tra densità di allevamento e diffusione del contagio.
In linea teorica, un allevamento con un numero maggiore di capi di bestiame è esposto ad un maggiore rischio di diffusione della malattia sia per il maggior numero di contatti tra gli animali, sia per la presenza di un numero più elevato di soggetti recettivi all’infezione. Tutti noi ricordiamo l’acronimo SIR, utilizzato nella recente pandemia da Sars-Cov-2: Suscettibili, Infetti, Rimossi.
Uno studio effettuato in Danimarca, ma riguardante le vacche, conclude che la presenza dell’infezione da C. burnetii è significativamente correlata all’aumentare della dimensione dell’allevamento: un’azienda con più di 150 vacche ha una probabilità di essere infetta circa 18 volte maggiore di un’azienda con meno di 80 capi. E tutti gli altri studi effettuati in Europa sull’argomento, seppure con valori di probabilità minori, hanno segnalato il ruolo della densità di capi come elemento di diffusione della malattia.

Gli spostamenti
Il sistema zootecnico olandese si caratterizza per una capillare e complessa logistica: migliaia di animali spostati incessantemente da un luogo di produzione all’altro sulla base delle rispettive specializzazioni. E l’acquisto e il connesso trasporto da sempre rappresentano un fattore di rischio ben conosciuto. Ma nel caso di C. burnetii l’assenza di test che permettano di individuare in modo certo i soggetti infetti, aggiunge un ulteriore elemento di rischio. L’unica forma efficace di controllo è la quarantena, ma che costi e che complessità organizzativa comporta?
Sebbene la trasmissione della malattia in allevamenti non infetti attribuibile all’introduzione di capi portatori di C. burnetii sia molto inferiore alla trasmissione per via aerogena, in uno studio condotto nel nordovest della Francia si è rilevato che l’infezione era più persistente.

Il clima
Lo abbiamo già segnalato ad Herpen: la siccità può influenzare la diffusione di C. burnetii. Lo studio è svedese: la presenza di precipitazioni continue e ravvicinate, almeno in Svezia, riduce il rischio di presenza dell’infezione negli allevamenti, probabilmente perché abbatte la presenza di cellule batteriche aerosolizzate nell’aria.

La salute umana
Secondo uno studio effettuato da ricercatori dell’Università di Amsterdam e da ricercatori del RIVM olandese, la letteratura non riporta prove che mettano in relazione la dimensione di un’azienda agricola con il rischio per la salute delle persone che abitano nelle vicinanze.
Certo, la sempre maggiore “densificazione” degli allevamenti ha ridotto la distanza tra animali allevati ed esseri umani, ma le grandi aziende si possono permettere innovazioni, ad esempio nel controllo delle emissioni, che le aziende più vecchie o di dimensioni inferiori non potranno mai adottare.
Nel caso dell’influenza aviaria l’allevamento all’aperto, più rispettoso del comportamento naturale degli animali, facilita la diffusione dell’agente patogeno dagli uccelli selvatici al pollame ruspante.
Ma si pone un altro problema, di tipo alimentare, posto questa volta da uno studio italiano.

Numero dei campioniArco temporaleMetodo diagnostico% positività
IZS Piemonte, Ligura, Valle D’Aosta, Facoltà Medicina Veterinaria Torino2362008-2010PCR Real-Time40,7
IZS Lombardia, Emilia Romagna3761*2007-2008PCR e PCR Real-Time44,0

* Controllo effettuato su tutti i distributori di latte.

La Tabella appena letta riporta i risultati del monitoraggio per C. burnetii sul latte crudo prelevato ai distributori.
Dunque, oltre il 40% del campioni di latte crudo acquistato dai distributori si caratterizza per la presenza di C. burnetii, una percentuale non trascurabile.
Sebbene la via inalatoria sia la fonte di contagio più frequente per l’uomo, la facilità con cui si può ingerire latte crudo contaminato segnala questo alimento come un possibile veicolo di infezione per i consumatori.
Nessuna preoccupazione: C. burnetii non dura più di 2 secondi nel latte a 83°C.
Tuttavia, un’indagine effettuata dall’IZS del Mezzogiorno sulla presenza di C. burnetii nei formaggi ovicaprini, bovini e bufalini prodotti in Italia meridionale, segnalava la presenza del batterio nel 40% dei campioni. In particolare, 30 formaggi analizzati, dei 136 totali, erano prodotti artigianalmente con latte non pastorizzato, procedura che consente al batterio di sopravvivere e di innescare la trasmissione per via alimentare.

Note
Questo lavoro è stato suggerito dalla lettura del libro di David Quammen, “Spillover”, pubblicato da Adelphi nel 2014. Nel libro si sono trovati tutti i meticolosi riferimenti che hanno permesso di ricostruite quanto avvenuto ad Herpen nel 2007.
I dati sul patrimonio zootecnico olandese sono tratti da DeAgostini Wind e si riferiscono al 2017.
Utili per approfondire la conoscenza della febbre Q una presentazione  ed un opuscolo sulla diagnosi ed il controllo della malattia dell’IZS delle Venezie.
Quanto alla letteratura scientifica sulla febbre Q, trovati interessanti i riferimenti contenuti in un articolo pubblicato dal National Institute for Public Health and the Environment (RIVM), 3720 BA Bilthoven, Paesi Bassi nel 2019: “Intensive livestock farming and residential health: experts’ views”.
I dati sull’Italia sono tratti dalla tesi : “Tesi di specializzazione Ricerca di Coxiella burnetii in campioni di latte di ovini e di bovini, presenti nel territorio della Valdera”,  specializzando, Nadia Baroni, Università di Pisa, Scuola di Specializzazione in “Sanità Animale, Allevamento e Produzioni Zootecniche”.

Allevamenti intensivi, emergenza climatica ed epidemie: il caso Olanda ultima modifica: 2020-08-05T16:01:10+00:00 da Giorgio Della Valle

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