Le contraddizioni della soia cinese
“Guerra Commerciale”
Il 6 Dicembre dello scorso anno, un venerdì, il governo cinese, su richiesta di alcune aziende del settore, eliminò alcuni dazi sulle importazioni di soia e di carne di maiale dagli Stati Uniti.
L’ottimismo nato dalla ripresa dei negoziati tra Stati Uniti e Cina, e l’intenzione di quest’ultima di incrementare l’acquisto di soia statunitense, fece aumentare il prezzo della soia in poco tempo (ottobre – novembre 2019) di oltre il 9%.
L’ennesima tappa di un processo iniziato nel 2018, quando, come ritorsione verso gli Stati Uniti che lo accusavano di aver favorito il furto di brevetti e proprietà intellettuali delle aziende statunitensi, il governo cinese aveva introdotto dazi al 25% su numerosi prodotti statunitensi, tra cui soia e carne di maiale, innescando la cosiddetta guerra commerciale. Una delle tante conseguenze fu una drastica riduzione delle importazioni di soia dagli Stati Uniti (dal 34% nel 2017 al 19% nel 2018), compensata da una crescita delle importazioni dal Brasile (dal 53% nel 2017 al 75% nel 2018).
La Cina negli ultimi anni ha assunto il ruolo di protagonista nel mercato mondiale della soia, e nella stagione 2018/2019 ha raggiunto il 57% della soia commercializzata.
Nonostante la costante crescita delle importazioni cinesi, nel 2019 le importazioni globali di soia sono diminuite del 9%. E anche in questo caso la Cina ha svolto un ruolo determinante: a causa della diffusione della peste suina africana, nel corso del passato anno è stato abbattuto oltre il 30% del patrimonio suino cinese. Attenzione: il 30% di oltre 700 milioni di maiali!
E, dato che l’eradicazione della malattia richiederà tempi lunghi, ci vorrà non poco per ristabilire il numero di suini e ritornare ai precedenti acquisti globali di soia. Perché il destino delle soia è strettamente legato a quello dei maiali
Manciuria
Nella provincia di Heilongjiang, nel nord della Cina ai confini con la Russia, più di cinquemila anni fa fu addomesticata la soia. La spiccata vocazione della regione la porta a produrre quasi la metà della soia prodotta in Cina ma, nell’ultimo periodo, tutto è cambiato e si prevede che tra una decina di anni la coltivazione della soia sarà trascurabile, riservata ad una nicchia ristretta di persone.
Negli ultimi anni la produzione nello Heilongjiang è in costante calo, (meno 5% all’anno, ma con valori anche del -10%); il governo ha cercato di porre rimedio alla situazione introducendo un prezzo minimo garantito per le consegne agli ammassi pubblici, ma la soluzione non si è dimostrata efficace. Anzi, ha favorito il sorgere di un mercato parallelo gestito da speculatori spregiudicati.
Al termine del raccolto della soia si presentano nei campi personaggi conosciuti che propongo l’acquisto di tutto il prodotto, ma a prezzi inferiori a quello minimo garantito dalle autorità. Nonostante ciò, i contadini vendono loro tutta la soia perché non hanno alcuna altra garanzia: all’ammasso pubblico rischiano, dopo giorni di attesa, di non ottenere il prezzo minimo garantito; ma potrebbero anche incorrere in funzionari pubblici corrotti che, in accordo con i commercianti, contestando la qualità della soia, fino a rifiutarla, li costringerebbero a ricorrere proprio a chi hanno cercato invano di evitare.
Generazioni di contadini giovani e meno giovani che da sempre coltivano la soia in piccoli appezzamenti in concessione pubblica, e non potrebbero facilmente dedicarsi ad altre colture. Hanno attraversato le fasi di transizione cinese dalla pianificazione al libero mercato subendone, più di altri, le dure conseguenze: nel 1995 la Cina era il primo esportatore di soia; oggi è il primo importatore mondiale.
Piccoli produttori
Si stima che in Cina circa quaranta milioni di piccoli produttori, organizzati in comuni, coltivino la soia, senza dotazioni meccaniche, in appezzamenti individuali che in media sono di 0,2-0,3 ettari. Nello Heilongjiang, dove i terreni sono abbondanti e le rese elevate, le aziende statali raramente superano i 10 ettari di dimensione.
Un primo segno di estrema debolezza nei confronti dei produttori di soia di Brasile, Argentina che si avvantaggiano di una enorme disponibilità di terra a basso prezzo e coltivano la soia in monocoltura in aziende dalle dimensioni sconfinate.
I costi di produzione della soia cinese sono più elevati rispetto a quelli della soia sudamericana, sono raddoppiati nel decennio 2003-2014 e sono tutt’ora in fase di crescita, per una ulteriore ragione: la coltivazione della soia geneticamente modificata, di gran lunga più economica, è proibita in Cina.
Organismi Geneticamente Modificati
Un forte segnale contraddittorio: nel 2015 il governo cinese ha stanziato 3 miliardi di dollari per sviluppare la selezione di nuove sementi resistenti agli erbicidi e ai parassiti, la Cina è diventata una nazione leader, a livello mondiale, nello sviluppo di organismi geneticamente modificati e, da tempo, il governo cinese ha lanciato una campagna di comunicazione pervasiva su tv, giornali e internet per motivare e sostenere la coltivazione di varietà OGM. Tuttavia, non è stata ancora autorizzata la loro coltivazione. La ragione risiede nei numerosi scandali verificatisi nel settore alimentare, come quello del latte in polvere per neonati contaminato, che hanno reso l’opinione pubblica cinese alquanto diffidente verso colture geneticamente modificate.
Di recente, però, il Ministero dell’Agricoltura e degli Affari Rurali cinese ha annunciato il rilascio di biosicurezza della soia SHZD32-01 geneticamente modificata (GM), sviluppata dalla Shanghaj Jiaotong University. Qualora il certificato venisse approvato, si avrà il primo raccolto di soia GM in Cina, il primo passo verso la sua produzione e commercializzazione.
Curioso il fatto che la prima varietà geneticamente modificata, ossia la Roundup Ready della Monsanto, sia stata sviluppata nel 1994 inserendo un gene replicato dal batterio Agrobacterium in una varietà di soia ad alto rendimento proveniente proprio da Shanghaj.
Domanda in crescita
A dispetto del calo della produzione nazionale, da circa un ventennio la domanda cinese di prodotti a base di soia è cresciuta in modo costante e sensazionale:
- nel 1995 la Cina produceva 14 milioni di tonnellate di soia e ne consumava altrettante;
- nel 2011 ne produceva ancora 14 milioni, ma ne consumava 70, importandone quindi 56;
- nel 2019, a fronte di una produzione interna di circa 12 milioni di tonnellate, la Cina ha importato 88,51 milioni di tonnellate di soia.
100 milioni di tonnellate di soia consumate in Cina nel 2019!
È evidente a tutti che si tratta di una quantità enorme. Ma come darne una evidenza efficace? Ci siamo divertiti con alcuni elementari calcoli:
- un metro cubo di soia pesa all’incirca 0,8 tonnellate (800 kg);
- dunque, una tonnellata di soia ha un volume di circa 1,25 metri cubi;
- 100 milioni di tonnellate di soia hanno un volume di circa 125 milioni di metri cubi;
- il comune di Faenza ha una area di 215,8 km quadrati, cioè 215,8 milioni di metri quadrati;
- immaginando di distribuire la soia consumata in Cina in un anno in modo uniforme su tutta la superficie del comune di Faenza si avrebbe una strato alto circa 58 cm, poco più di mezzo metro. Non male.
Ritornando al tema, sono, dunque, bastati pochi anni per creare uno squilibrio che ha generato una forte dipendenza dall’importazione che a sua volta ha determinato un declino della produzione nazionale.
Olio di soia
Ma come è possibile passare da un consumo annuo di 14 milioni di tonnellate nel 1995 ad uno di 100 milioni nel 2019?
Non di certo a causa della crescita demografica: del 33% tra il 1995 ed il 2019, rispetto ad un incremento di oltre sette volte del consumo di soia.
Semplice: nuovi modelli di vita e nuovi stili alimentari, importati anche questi, conseguenti ad una notevole crescita del reddito. Non esiste nessun altra contorta risposta.
Nel suo piccolo, un contributo alla crescente domanda lo ha dato l’olio di soia: dal 1979 al 1999 il suo consumo è cresciuto del 440%, attualmente rappresenta il 44% del mercato nazionale.
Nel 2016 il governo ha previsto un aumento delle superfici a soia, nell’ambito di un piano per le colture oleaginose, pari a 2,53 milioni di ettari, nonostante il consumo di olio di soia sia negli ultimi anni in calo. Nessuna incoerenza: i consumatori cinesi nutrono una forte sfiducia verso le colture geneticamente modificate (OGM), e l’olio di soia è in massima parte prodotto con soia importata, OGM, mentre in Cina è possibile coltivare, come detto in precedenza, solo soia non OGM.
Entrano in gioco anche ragioni logistiche. Il trasporto della soia all’interno della Cina è difficoltoso e gli impianti di estrazione sono localizzati in città lungo la costa. Come impedire il ricorso a soia importata, che, oltre a costare meno rispetto a quella nazionale, ha rese in olio superiori? Non bastasse, la produzione nazionale, basata su piccole unità produttive famigliari, fornisce una miscela di differenti varietà di soia, prive della qualità e degli standard uniformi richiesti dall’industria. Qualità e uniformità che le grandi aziende straniere non potrebbero assolutamente non rispettare.
Farina di soia
Ma è evidente che la risposta al formidabile incremento nel consumo di soia in Ciana risiede altrove. È nel passaggio delle tradizionali abitudini alimentari cinesi, basate sulla prevalenza dei prodotti vegetali, ad una sempre maggiore incidenza degli alimenti di origine animale: carne, uova, pesce, latte, formaggi.
Tra il 1985 ed il 2015 la produzione di carne suina è quadruplicata e rappresenta il 57% della produzione totale di carne, oltre metà dei maiali di tutto il mondo si trovano in Cina; la produzione di pollame è cresciuta di diciotto volte; quella di carne bovina di quindici volte; quella di carne ovina di sette volte.
Se nel 1970 un cinese consumava in media 8 chilogrammi all’anno di carne di maiale, proveniente in massima parte da allevamenti famigliari, e di fatto non consumava carne di altri animali, oggi è arrivato a consumarne in media 39, oltre al pollame, ecc. Almeno 5 volte in più.
E tutti, anche i pesci, sono alimentati con panello e farina di soia, i mangimi a più alto contenuto proteico, oltre che con altri cereali, in primis il mais.
La moda delle specie esotiche
Il cambiamento delle abitudini alimentari in Cina ci obbliga ad una breve incursione in un tema di stretta attualità.
Se scrivessimo civetta delle palme mascherata, credo che a quasi nessuno possa venire in mente un’immagine o una vecchia stampa, mentre se scrivessimo furetto, probabilmente, tutti recupererebbero una più o meno vaga idea di piccolo mammifero esotico. Paguma larvata, il nome scientifico della civetta delle palme mascherata, un viverride della famiglia delle manguste.
Insieme al tasso furetto della Cina e al tasso naso di porco rappresenta una delle specie di particolare pregio nelle regione cinese dello Guangdond; si possono trovare facilmente nei mercati di Canton e di Shenzhen.
Si direbbe un animale dal pelo morbido e dall’espressione mite e socievole. Ed è anche possibile che possa essere tenuto in casa al pari di un gatto. Ma non è questo a renderlo interessante, quantomeno ai cinesi del sud: assieme a gatti, cani, serpenti e pressoché tutte le creature di terra, acqua e aria è considerato una prelibatezza culinaria.
La cucina cantonese si caratterizza per la sua tradizionale propensione ad avventurarsi nelle più strane imprese gastronomiche, ma negli ultimi decenni sembra abbia esagerato, se gli esperti di cultura cinese contemporanea si sono spinti a definire questo periodo come l’«èra delle specialità selvatiche» (precisamente yewei in cinese mandarino).
In un paese con 1,4 miliardi di abitanti la esasperata onnivoracità potrebbe essere considerata, per quanto disorientante, una inevitabile necessità. Niente di vero: l’interesse per le più strane specie animali non si origina affatto dalla scarsità di alimenti, da arcaiche usanze o, semplicemente, dalla fame, ma proprio dalla nuova ricchezza che abbisogna di mostrarsi, anche nelle forme più inconsuete. E, dunque, il consumo di animali selvatici, considerati al pari di beni di lusso, diviene lo strumento per ostentare la propria opulenza, la propria esclusiva, infinita, capacità di spesa.
Nella sola città Canton, agli inizi del millennio si contavano oltre 2000 ristoranti che includevano nei propri menu animali esotici. Acquistati nei cosiddetti web markets: luoghi sterminati dove gli animali sono messi all’incanto e macellati sul posto.
Il Chatou di Canton è stato inaugurato nel 1998 e nel giro di pochi anni è diventato uno dei più importanti web markets di tutta la Cina. Un luogo sterminato e apocalittico: gli animali sono tenuti in piccole gabbie impilate; le deiezioni degli animali che stanno in alto cadono su quelli che stanno in basso; le diverse specie sono spesso a contatto con altre e molti animali presentano ferite aperte causate da scontri violenti. Un luogo nel quale è difficile distinguere il commercio legale da quello illegale e che si avvale sempre più di specie provenienti da tutto il Sud-Est asiatico. E attorno al quale è cresciuta una industria specializzata nell’allevamento di rane, tartarughe, serpenti e tutto quanto si può immaginare. Animali allevati che giungono in buone condizioni, cioè senza i segni che mostrano gli animali selvatici catturati: ferite lasciate dalle trappole, dai maltrattamenti, oltre a comportamenti nevrotici.
Ma i mercati sono luoghi niente affatto sani e, soprattutto, sono luoghi dai quali possono propagarsi infezioni, anche agli umani.
Nell’ottobre del 2003 venne pubblicato su «Science» un articolo curato da Guan Yi, Leo Poon e Malik Peiris. Da poco si era superata la fase acuta dell’epidemia da SARS, e gli autori segnalavano di aver rintracciato la presenza del coronavirus della SARS nelle civette delle palme mascherate ma, con prudenza, indicavano che il dato non implicava che questi animali fossero l’ospite serbatoio del coronavirus. Netta e più importante la segnalazione che i web markets erano i luoghi ideali dove i coronavirus del tipo SARS «si potevano amplificare e trasmettere a nuovi ospiti, esseri umani inclusi; questo fatto è della massima rilevanza dal punto di vista della salute pubblica». Qui ci arrestiamo per evitare di addentrarci in un campo sterminato.
Terminata questa digressione, precisiamo che, anche se può essere facilmente dedotto dai precedenti dati, solo un decimo della soia è utilizzata in Cina in forma di alimenti, tofu o salsa di soia, ed in massima parte è soia nazionale non transgenica; il restante 90% è destinato alla separazione dell’olio dalla farina, destinata quest’ultima all’alimentazione del bestiame.
La produzione di farina di soia è passata da 8 milioni di tonnellate nel 1997/98 a quasi 150 milioni di tonnellate nel 2014/15 e nel 2012 la Cina è diventata la più grande produttrice di mangimi del mondo (per inciso, fino al 1975 questo tipo di industria era sconosciuto).
Multinazionali estere
Ed anche questo campo presenta un elemento paradossale: l’industria della lavorazione della soia cinese è posseduta quasi interamente dalle grandi multinazionali straniere del settore. A seguito di una vicenda esemplare.
Anno 2004: il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti annuncia un raccolto scarso, molto scarso di soia; le aziende cinesi, su suggerimento del governo per facilitare le relazioni economiche tra i due stati, acquistano 1,5 milioni di tonnellate di soia dagli Stati Uniti; il prezzo futures pattuito è di 4.300 yuan a tonnellata.
Bene, a distanza di breve tempo si seppe che, in realtà, il raccolto di soia negli Stati Uniti aveva raggiunto un record storico, il prezzo della soia calò a 3.100 yuan a tonnellata, la Cina perse 1,5 miliardi dollari, molte aziende cinesi di trasformazione della soia andarono in bancarotta, le grandi multinazionali le acquisirono raggiungendo una posizioni di monopolio (oggi ADM, Bunge, Cargill e Dreyfus possedevano alcuni anni fa circa il 70% delle quote azionarie delle principali aziende cinesi del settore), che utilizzarono per stipulare contratti con i grandi produttori stranieri di soia, rigorosamente OGM, ovviamente agendo sui futures a Chicago per mantenere alti i prezzi della soia statunitense, …
La Cina ha perso ogni possibilità di influenzare il prezzo della soia nazionale.
Ma si tratta, in definitiva, di un effetto marginale che non può che conseguire dall’attuale configurazione del sistema agricolo cinese e dalle politiche agricole nazionali: la Cina, pur avendo il 20% della popolazione mondiale, ha solo il 7% delle terre arabili e solo il 6% delle risorse idriche. Non potrebbe mai produrre l’enorme quantità di soia di cui abbisogna.
Liberalizzazione
Dal 2001, da quando fa parte dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), la Cina ha ridotto in modo drastico le tariffe doganali sull’importazione della soia, portandole al 3% (erano in precedenza del 114%) e senza contingente all’importazione.
Una scelta politica lucida, per quanto possa apparire contraddittoria: la soia non poteva più essere considerata un prodotto interno strategico e la sua produzione veniva sacrificata. Per salvaguardare e proteggere i cereali: riso e grano continuano a costituire la base della dieta alimentare dei cinesi e hanno in sé un elevato valore politico.
Un ulteriore paradosso: per trovare un equilibrio tra le preoccupazioni dei cittadini sulla sicurezza delle coltivazioni GM e la crescente domanda di alimenti a prezzi bassi, si è giunti a penalizzare la produzione nazionale di soia e ad incrementare le importazioni di soia GM, esattamente quella che i consumatori vogliono evitare.
Soia vs mais
Oltre che sulle tariffe di importazione, il governo cinese ha fatto ricorso anche alla leva dei prezzi minimi garantiti e così, tra il 2008 ed il 2013, mentre il prezzo minimo del mais è aumentato del 50% quello della soia è cresciuto solo del 30%. Ed il mais ha una resa tre volte maggiore di quella della soia. Un differenziale di reddito sufficiente a spingere numerose famiglie contadine alla coltivazione del mais. Con una grave ripercussione ecologica: coltivazione continua del mais, interruzione della rotazione annuale tra soia e mais e compromissione della naturale fertilità dei terreni.
Lo Heilongjiang ha vissuto questo passaggio con la massima intensità, trasformandosi dalla provincia con la massima produzione di soia a quella con la più alta produzione di mais.
In realtà, in Cina non c’è terreno per le produzioni estensive, ed è probabile che anche il mais venga liberalizzato con conseguente crescita strabiliante delle importazioni, soprattutto dagli Stati Uniti.
Tuttavia a non tutti è stato possibile effettuare questo passaggio, ma semplicemente perché richiede costi iniziali elevati. Pertanto, a coltivare la soia sono rimasti i contadini più poveri.
Col tempo il problema ha assunto un rilievo nazionale ed è del 2016 un bollettino del Ministero dell’Agricoltura che fornisce suggerimenti per sviluppare la produzione di soia; l’obiettivo è di aumentare entro il 2020 del 40% la superficie di coltivazione della soia e incrementarne le rese
Esternalizzare
I dati più aggiornati non corrispondono alle previsioni, ma anche se gli obiettivi fossero raggiunti non potrebbero risolvere il problema strutturale: per alimentare il ciclo produttivo industrializzato della carne di maiale la Cina non può che ricorrere alla soia coltivata altrove. Deve espandere e controllare all’estero ciò che non potrà mai ottenere entro i confini nazionali.
E lo sta facendo da tempo in Sud America. Ma non solo.
Come detto in precedenza, senza la domanda cinese di soia in costante crescita il consumo e la produzione mondiale assumerebbero l’aspetto di una linea piatta.
I dati dell’ultima stagione 2018/2019 sembrano confermarlo: Il Brasile è il primo produttore mondiale con 126 milioni di tonnellate ed un ulteriore incremento di circa l’8% rispetto alla precedente stagione; anche l’Argentina ha incrementato la propria produzione di soia portandosi a 54 milioni di tonnellate; mentre gli Stati Uniti, con una produzione di circa 97 milioni di tonnellate hanno segnato un calo di circa il 20% rispetto alla precedente stagione.
La sola Cina ha importato nella stagione 2018/2019 88 milioni di tonnellate di soia, il 57% delle esportazioni mondiali, di cui circa 58 milioni dal Brasile (65% del totale) e 17 milioni dagli Stati Uniti.
Pechino si sta muovendo da anni, investendo in tutti i settori, per assumere un ruolo sempre più incisivo nei luoghi di controllo del mercato mondiale della soia, per sganciarsi dal peso delle aziende occidentali, e per garantirsi la sicurezza alimentare assicurandosi le produzioni che non potrà mai sviluppare al proprio interno. Lo fa spingendo la aziende cinesi ad espandersi nei mercati esteri per assumere il predominio nelle transazioni.
I valori coinvolti sono colossali: La COFCO (Chine National Cereals, Olis and Foodstuffs Corporation), uno sterminato apparato statale dedicato alla produzione, alla trasformazione ed al commercio di prodotti alimentari, ha qualche anno fa investito alcuni miliardi di dollari per controllare Nidera, azienda olandese del gruppo Noble che produce e commercializza prodotti alimentari di base; l’azienda Chongqing Grain ha investito sei miliardi di dollari in Argentina, Brasile e Canada nelle produzione di soia; Beidahuang, la più grande società agricola cinese con sede ad Harbin produce direttamente soia in terreni presi in leasing in Argentina; nel 2015 Xi Jinping ha affermato che investirà 250 miliardi di dollari in Sud America entro il 2025 per realizzare infrastrutture, tra le quali una ferrovia che collegherà Argentina e Brasile al Perù, dai cui porti imbarcare la soia direttamente verso la Cina.
Dissenzienti
Non tutti concordano con questa visione dell’agricoltura cinese.
Nel maggio del 2017 il governo dello Heilongjiang ha imposto il divieto su soia, riso e mais GM a seguito della scoperta che il 10% dei coltivatori di soia della ragione piantava illegalmente semi di soia GM di contrabbando. La creazione di una sorta di zona speciale è stata dettata dalla volontà di evitare la contaminazione del raccolto ottenuto da specie locali diversificate in secoli di selezione e qualificare il prodotto, differenziandolo da quello importato. Insomma creare un vantaggio competitivo. Purtroppo in Cina le etichette non forniscono quasi mai un’informazione corretta, e i consumatori non sono messi nelle condizioni di acquistare la soia nazionale non GM.
Wen Tiejun è il preside della scuola di Economia Agraria e Sviluppo Rurale della Renmin University di Pechino ed è il fondatore del New Rural Reconstruction Movement, un organismo che si oppone alle politiche di industrializzazione delle campagne cinesi.
L’agricoltura industriale si basa su due precise condizioni: abbondanza di terra e scarsità di popolazione e queste due condizioni in Cina non esistono. Nelle campagne cinesi continuano a lavorare 800 milioni di persone, l’espansione della loro industrializzazione creerà un sostenuto esodo di manodopera verso le città, ma se questo è stato necessario nel passato per rifornire l’industria emergente, lo sarà anche nel futuro?
Wen ritiene che il futuro del pianeta siano i piccoli contadini organizzati e finanziati da cooperative rurali.
E la soia importata? Nessun’altra possibile soluzione è ipotizzabile: ridurre il consumo di carne in genere e specificamente di carne di maiale.
Ma l’obiettivo del governo cinese è di continuare a garantire a tutti i cinesi il giornaliero piatto a base di carne di maiale.
Due posizioni che non potrebbero essere più inconciliabili.
>Amazzonia e soia (Parte due)