Amazzonia e soia (parte due)
Solo soia
Il Mato Grosso era una regione monotona, ma lo è diventata ancora di più da quando si è trasformata in un’enorme monocoltura di soia: per centinaia di chilometri non si incontra nessuno, non si sente alcun rumore che attesti la presenza di vita se non quello degli enormi mezzi meccanici per la coltivazione.
In Brasile è percepito come una “frontiera agricola”, ma è, nei fatti, la sperimentazione di un modello di agricoltura industriale globale basata sull’utilizzo delle più moderne tecnologie e sull’apertura al commercio mondiale: milioni di ettari destinati alla produzione di soia traportata poi per migliaia di chilometri.
Un pioniere
Otaviano Pivetta è un esempio dei pionieri che, dopo essere riusciti a resistere alle dure condizioni imposte dall’ostilità dell’ambiente, e dopo aver colto le potenzialità produttive del Mato Grosso, è divenuto un imprenditore agricolo a capo di un’azienda di 270.000 ettari. Oggi la sua è un’impresa di capitali, ne detiene il 30% e occupa un posto nel consiglio di amministrazione. Ha mantenuto uno stretto legame con il territorio e per tre mandati è stato sindaco di Lucas di Rio Verde.
È anche un esempio del processo di accentramento della proprietà terriera che in Mato Grosso ha raggiunto livelli rilevanti.
Pochi grandissimi produttori
La soia, caratterizzandosi per una alta omogeneità, favorisce una standardizzazione delle tecnologie e spinge a economie di scala basate sullo scambio di elevate quantità di prodotto. In altre parole, favorisce la nascita di aziende sempre più grandi.
Ad esempio, in Brasile, dal 1975 al 2006, le aziende sono diminuite da 487.000 unità a 217.000, contro un aumento della superficie del 216% e della produzione del 430%. Mentre è rimasto costante il numero dei grandi produttori, sono stati in massima parte gli agricoltori con meno di 100 ettari ad abbandonare l’attività agricola. Se le aziende con oltre 1.000 ettari sono poche, controllano in Brasile il 48% della superficie a soia.
Nonostante questa tendenza, i piccoli produttori con meno di 50 ettari continuano ad esistere e, fino ad alcuni anni fa, rappresentavano il 70% del totale.
Tuttavia, si ritiene che negli ultimi anni il processo di concentrazione si sia accentuato.
Tradizionale
Rimane quello brasiliano, pur sempre, un modello tradizionale di agricoltura, basato sulla lunga storia familiare di legame con la terra, sulla proprietà fondiaria, sulle attività connesse di produzione delle sementi, stoccaggio e trasporto, sulla proprietà dei macchinari e delle attrezzature e su solidi rapporti con aziende fornitrici di fertilizzanti, pesticidi e finanziamenti e, ovviamente, con gli operatori della commercializzazione.
Argentino
Ben diverso il sistema affermatosi in Argentina: enormi aziende detenute da proprietari non rurali (spesso società di capitali) senza alcun legame con il territorio, privi sia di capitale fondiario che di macchinari, e che gestiscono in affitto estese aree coltivabili.
Le principali protagoniste sono cinque aziende, El Tejar, Los Grobos, Adecoagro, MSU e Cresud che nell’anno agricolo 2011/2012 controllavano oltre 2,5 milioni di ettari nei cinque paesi del Cono Sud.
Superficie, in ettari, gestita dalle prime cinque aziende argentine nell’annata agricola 2011/2012.
Piccoli rentiers
Nel contesto argentino, per i piccoli e medi agricoltori le alternative sono solo due: o continuare a svolgere l’attività ereditata dai genitori, ma interrompendo il flusso di conoscenze e di saperi della tradizione semplificandoli alla monocoltura della soia; o diventare piccoli affittuari.
Che vivono di sola rendita.
Li si può trovare nei campi da golf delle cittadine immerse nel mare di soia. In fondo, basta disporre di 50 ettari per incassare dal loro affitto circa 20.000 dollari all’anno, una cifra non male in un paese nel quale un medico non arriva a 10.000 dollari.
Rodovia BR-163
Il crescente prezzo internazionale della soia e gli ingenti investimenti tecnologici hanno accresciuto il valore dei terreni e trascinato al rialzo il costo degli affitti.
Tuttavia, e nonostante queste siano tra le terre più fertili al mondo, il prezzo della soia prodotta nel Mato Grosso è circa il doppio del prezzo della soia prodotta negli Stati Uniti.
La causa: duemila chilometri di distanza dai porti meridionali di Santos e Paraguaná, che richiedono giorni, se non settimane, per essere percorsi lungo la rodovia BR-163, una strada tanto inadeguata quanto pericolosa. La cui storia, emblematica dei fallimenti brasiliani nella costruzione di opere pubbliche, non può non essere raccontata.
Messa in cantiere dalla dittatura militare nella metà degli anni Sessanta e immaginata come un’autostrada di collegamento tra il sud ed il nord del Brasile, fino a Santarem, ad oltre quarant’anni di distanza rimane incompiuta: anche dopo le privatizzazioni attuate nel 2014, oltre 1200 chilometri risultano non asfaltati.
Esistono, nei suoi 3500 chilometri di percorso, numerose sezioni che possono essere percorse solo lungo le piste aperte dai trattori, gli unici mezzi a potersi muovere durante gli interminabili ingorghi, e nei periodi di pioggia non è inconsueto che un tratto di 30 chilometri richieda 15 ore per essere coperto.
È stata definita una delle “più grandi calamità stradale del Brasile”, ma nonostante ciò è continuamente percorsa da migliaia di automezzi, non esistendo alcuna alternativa.
Terminale a Santarem
Nel 1999, quando la richiesta mondiale di soia iniziava a crescere ma la Cina ne era ancora estranea, la Cargill iniziò la costruzione di un enorme terminale a Santarem, nel punto in cui le acque limpide del Tapajós si immettono in quelle torbide del Rio della Amazzoni.
Una struttura sulla terraferma, proprio al termine della rodovia BR-163, collegata, tramite un braccio di ferro lungo un centinaio di metri, ad una piattaforma galleggiante. Ed è li che la soia, proveniente dal nord del Mato Grosso e dall’Amazzonia, viene caricata sulle navi mercantili che, percorso il Rio delle Amazzoni, si dirigono poi in ogni parte del mondo.
In anticipo sui concorrenti, la Cargill aveva intuito che i collegamenti verso sud erano congestionati e lo sarebbero rimasti per anni, e che la BR-163 sarebbe stata ampliata e asfaltata al nord collegando al meglio Santarem con le regioni circostanti.
Come detto in precedenza, nel Mato Grosso la soia era da tempo la monocoltura predominante, ma anche in Amazzonia iniziava a diffondersi velocemente: in pochi anni, dal 2006 al 2013, gli ettari coltivati a soia passarono da due a tre milioni. Ed il terminal di Santarem ha agito come fulcro di sviluppo: aprendo un canale di commercializzazione ha creato le condizioni per l’espansione della coltivazione e ha innescato un devastante processo di disboscamento.
La Cargill
Ma chi è la Cargill? In quale settore opera? Che ruolo ha nel mercato globale della soia?
Fondata nel 1865, Cargill è la più grande azienda privata degli Stati Uniti: è rigidamente controllata dalle due famiglie MacMillan e Cargill, in seno alle quali si selezionano gli amministratori, non è quotata in borsa, opera in oltre settanta paesi, ha un fatturato annuo di 120 miliardi di dollari. Si occupa di stoccare, trasportare e trasformare cereali e semi oleosi in ogni parte del mondo ed evita di coinvolgersi nella gestione diretta dei campi, attività troppo rischiosa. Efficacemente, osserva Stefano Liberti, le sue operazioni sono pianificate dai confini dei campi al piatto. Ovunque si aprano mercati di prodotti agricoli, la Cargill c’è.
Come scritto da un giornalista di Fortune, è probabile che qualsiasi cosa da noi mangiata includa, in più o meno elevata percentuale, un prodotto di base commercializzato dalla Cargill.
Eppure, nonostante questa pervasività, la Cargill resta nell’ombra, non appare, pochi la conoscono. Una riservatezza perseguita dalla nascita con assoluta coerenza.
A.B.C.D.
ADM, Bunge, Cargill e Dreyfus: sono le quattro aziende che hanno raggiunto nel Cono Sud un ruolo predominante nella fase di “post produzione” della soia (acquisto, stoccaggio e industrializzazione del prodotto).
Se fino al 1995 solo Cargill e Dreyfus disponevano di impianti industriali in Brasile ed Argentina, da quell’anno si sono aggiunte la Bunge e la AMD che hanno iniziato ad occupare lo spazio acquisendo aziende locali e poi realizzando propri impianti. E così, dal 9% della capacità di schiacciamento della soia (produzione di farina e olio) del 1995, nel 2002 le quattro aziende sono giunte a gestirne oltre il 50%: da 16.000 tonnellate al giorno a oltre 100.000 tonnellate al giorno. Nel 2011 la capacità giornaliera di schiacciamento ha toccato le 180.000 tonnellate.
Investimenti in altre fasi della filiera della soia ed una più marcata integrazione verticale hanno reso il gruppo “ABCD” leader del mercato della soia: dal 2005 al 2011 il valore delle vendite all’estero è passato da 12,2 a 33,6 miliardi di dollari e la quota delle esportazioni totali del Cono Sud è cresciuta dal 6,8% al 10%.
Di recente, ha assunto un peso maggiore la vendita della soia in grano e si stima che le quattro aziende ne controllino l’85% della commercializzazione.
Nonostante la supremazia del gruppo “ABCD” le imprese nazionali hanno saputo mantenere un ruolo rilevante e si sta affacciando, nel solito modo elefantiaco, la Cina: una sua impresa, la Cofco, dal 2014 è azionista di maggioranza di due aziende in veloce espansione, la Noble e la Nidera.
Destinazione?
Dove finisce questa enorme quantità di soia? A cosa è destinata? Alla sola produzione di bevande di soia? Basterebbe un dato per dubitarne: la produzione mondiale di soia nel 1950 era di 17 milioni di tonnellate, oggi è oltre i 250 milioni, 14 volte maggiore.
Dunque, quale le sua destinazione?
[Parte due]
[Le informazioni sono liberamente tratte da: S. Liberti, “I signori del cibo”, minimun fax, Roma, 2016; V. J. Wesz Junior, “La filiera della soia nell’America del Cono Sud: dinamiche, processi e attori”, Rivista di Economia Agraria, Anno LXXI, n. 1, 2016: 25-45; J. Blunck, “Bolsonaro minaccia l’Amazzonia”, Internazionale, n. 1311, 2019: 40-48; R. Da Rin, “In Argentina nata la Repubblica della soia”, Il Sole-24 Ore, 15-7-2010]
> Amazzonia e Soia (Parte uno)